Sono cresciuto sulla spiaggia
di una splendida isola, la Tasmania.
Ho avuto la possibilità di incontrare
e interagire con creature incredibili
ed è lì che è nato
il mio profondo legame con l'oceano.
La Tasmania è una delle isole
più belle del nostro pianeta,
ma 30 anni fa la città dove sono cresciuto
aveva un problema terribile.
L'oceano era inquinato dagli scarichi
delle industrie pesanti,
tra cui una fabbrica per la produzione
di cellulosa e pasta di legno,
un mattatoio e un impianto
per la produzione di vernici.
Causavano eruzioni cutanee
a nuotatori e surfisti,
che quando uscivano dall'acqua
avevano gli occhi rossi e irritati.
La città di Burnie, all'epoca,
aveva una delle più alte percentuali
di tumori in Australia.
Seguendo l'esempio delle tre generazioni
di giornalisti della mia famiglia,
ho intrapreso una missione investigativa
per scoprire se quelle industrie
fossero effettivamente responsabili
per l'incidenza di malattie
e per le pessime condizioni
dell'ecosistema costiero.
Mi sono quindi rivolto a un laboratorio,
per far analizzare le acque di Burnie,
che ha rilevato che lo scarico della
produzione di cellulosa e pasta di legno
conteneva clori organici,
nei quali erano contenute pericolose
diossine che provocano il cancro.
Mostrai quindi i risultati
alle autorità statali
e al ministro dell'ambiente,
che ammise per la prima volta
che il governo era al corrente
della presenza di clori e diossine
e della loro pericolosità,
ma non avevano informato la popolazione.
Pubblicai le mie ricerche
sul giornale locale,
che generarono un'ondata
di proteste in tutta l'Australia.
I giornali nazionali nominarono Burnie
"la città più inquinata in Australia".
Vi posso dire che non ero molto amato
dalle autorità locali per il turismo.
Allora avevo 20 anni.
Poco dopo la pubblicazione della notizia,
le industrie iniziarono a chiudere.
Oggi le acque attorno alla costa di Burnie
sono tra le più limpide
e i pesci vi hanno fatto ritorno.
È così che ho capito il potere dei media.
Mentre ampliavo
le mie conoscenze sui media
attraverso giornali, radio e televisione,
è nata la mia passione per il cinema.
I film mi permisero di raccontare storie,
di creare documentari
che davano voce a creature silenzione
come i vermi della mia infanzia.
Ma nutrivo anche un amore profondo
per una particolare specie
su cui avevo investito
molto tempo da bambino.
Era la balenottera azzurra,
un essere gigantesco,
ma molto timido.
Ebbi l'opportunità di fare un documentario
al largo della costa sud dello Sri Lanka.
Per me fu la coronazione
del sogno di una vita.
Le balenottere azzurre sono gli animali
più grandi mai esistiti.
Sono più grandi di qualsiasi dinosauro.
Raggiungono una lunghezza
di circa 37 metri
e hanno un cuore grande
quanto una macchina.
Sono state cacciate
quasi fino all'estinzione,
e per questo sono estremamente schive.
Trovarle è come cercare
un ago gigante in un immenso pagliaio.
Navigammo su e giù per la costa
dello Sri Lanka per settimane intere
alla ricerca di quelle balene.
Se vedevamo un soffio d'acqua
in lontananza, ci avvicinavamo.
Mettevamo le macchine fotografiche
nelle custodie subacquee,
mandavamo le nostre squadre in acqua,
ci dirigevamo verso le balene,
e poi non le vedevamo più.
E questo succedeva ogni santo giorno.
E se volete sapere
cosa si prova a impazzire,
continuate a cercare in un oceano,
vasto e sconfinato,
giorno, dopo giorno, dopo giorno.
È così che il caffè divenne
il mio migliore amico.
Cercammo nelle vicinanze
di un monte sottomarino,
una zona in cui abbonda il krill,
trascinato dalle correnti.
Sapevamo che lì le avremmo trovate,
perché si nutrono di krill.
Non ne trovammo nemmeno una.
Ma quello che trovammo
fu senza dubbio significativo.
Era una discarica
di plastica galleggiante.
Una gigantesca macchia di detriti
a perdita d'occhio.
Conteneva vecchie reti da pesca, scatole
per esche, bottiglie di plastica,
accendini usati e biscotti nemmeno aperti:
gli scarti dell'umanità.
Era davvero spaventoso.
Era il segnale di una tragedia imminente.
All'epoca non lo sapevamo.
Continuammo a cercare le balene
per tre settimane
ma il tempo a nostra disposizione finì.
Dovevamo ritornare in porto
perché il nostro visto stava per scadere.
Ma io sono una persona
incredibilmente testarda
e non ero arrivato fino a quel punto
per gettare la spugna così facilmente.
Mi rifiutai di mettere via
le macchine fotografiche
e non permisi di riporre
le bombole nella stiva.
Avevo intenzione di sfruttare al massimo
ogni istante trascorso in mare.
Quando qualcuno grida "Balena",
avverti una forte scarica di adrenalina.
Qualcuno urlò "Balena",
e la mia adrenalina andò alle stelle.
Lì, a 100 metri dalla nostra prua,
una nuvola di vapore acqueo:
(Imita il soffio)
alta e ben visibile.
Spegnemmo i motori della barca,
mandammo in acqua i sommozzatori
con le macchine fotografiche,
e io mi immersi con l'equipaggio.
Nuotammo lentamente verso
un branco di balene.
Avvicinandoci ci accorgemmo
che era una famiglia di otto esemplari,
e tra questi otto esemplari
c'era anche un giovane.
E quando dico "giovane",
intendo lungo 15 metri.
Ed era tanto curioso
nei nostri confronti quanto noi nei suoi.
Con un colpo della sua grande coda
scese in profondità e non lo vedemmo più,
poi, qualche istante dopo,
emerse tra i nostri obiettivi.
Per la prima volta
ottenemmo le riprese subacquee
di un giovane esemplare
di balenottera azzurra.
Fu un momento davvero unico per noi.
Mentre ritornavamo verso il porto
riflettei sugli scatti
e mi resi conto che queste balene
si riposavano e probabilmente si nutrivano
proprio dove avevamo ripreso
la discarica di plastica galleggiante.
Quando le balenottere azzurre si nutrono,
spalancano la bocca
e risucchiano migliaia di litri d'acqua,
che viene poi espulsa,
mentre il krill viene trattenuto
tra i fanoni, la loro dentatura.
Ma le balene non distinguono
il krill dalla plastica.
Per noi la spedizione nello Sri Lanka
fu l'inizio di un'incredibile ricerca
che fece sorgere
più domande che risposte:
se le balene si nutrivano della plastica
in un ambiente incontaminato
come l'Oceano Indiano,
cosa stava succedendo alla fauna marina
degli oceani in altre aree del pianeta?
E dei 350 milioni di tonnellate
di plastica prodotti quell'anno,
quante andavano a finire nell'oceano?
E se la fauna marina degli oceani
del mondo si stesse nutrendo di plastica,
e noi siamo in cima
alla catena alimentare,
cosa comportava tutto ciò
per la nostra salute?
Riunimmo squadre, equipaggi e scienziati
e viaggiammo intorno al mondo
per quattro anni in 20 luoghi diversi
per rispondere alle domande
per il nostro film "A Plastic Ocean".
Le nostre ricerche furono implacabili.
Per esempio, scoprimmo
che il 70% della plastica affonda.
Ciò che avevamo visto
era solo la punta dell'iceberg,
e così noleggiammo
una nave da ricerca e due sottomarini
e andammo nel Mar Mediterraneo
per esplorarne il fondale,
1.600 metri sotto la superficie,
per vedere cosa succedeva
alla plastica in assenza di luce,
in assenza di ossigeno.
Viaggiammo per migliaia di chilometri
fino al Pacifico, su isole dove
gli uccelli marini ingerivano plastica,
scambiandola per cibo.
Una delle immagini più forti del film
è un piccolo ed eroico uccello marino,
la berta.
Questi uccelli, ancora pulcini,
morivano a centinaia
su un'isola chiamata Isola di Lord Howe.
E quando aprimmo
lo stomaco di questi uccelli
lo trovammo pieno di plastica.
In particolare, in un pulcino
trovammo 272 pezzi di plastica,
l'equivalente di circa 12 pizze
se si ingerissero tutte insieme
e si tenessero nel proprio stomaco.
Riuscite a immaginare il dolore
provato da questo animale?
Aprendone altri trovammo
un tappo di bottiglie rosso
e in quel momento capii
che quel tappo
potevo averlo gettato io anni prima
senza pensare alle conseguenze
delle mie azioni.
Se io che sono un surfista, un sub,
e un esploratore marino
non ero consapevole delle conseguenze
delle mie azioni sull'ambiente
otto anni fa,
come potrei pretendere che chiunque
altro comprendesse le proprie?
Dovevamo aprire gli occhi alla gente,
e "A Plastic Ocean" ci avrebbe aiutati.
Gli scienziati ci dicono
che ogni anno riversiamo
tra le 8 e le 12 tonnellate di plastica
negli oceani.
Come diavolo abbiamo permesso
che accadesse?
La risposta è semplice, ci avevano detto
che la plastica ci semplificava la vita:
non avremmo più dovuto lavare i piatti,
il cibo sarebbe rimasto fresco più a lungo
e i prodotti sarebbero stati protetti
come mai nessun materiale aveva mai fatto.
In molti modi,
la plastica fece proprio quello.
Ma ci dissero anche che potevamo usare
la plastica una volta sola e poi buttarla.
Pensateci.
La plastica è il prodotto più duraturo
che si sia mai inventato.
Come può il prodotto più duraturo
mai inventato essere definito usa e getta?
La risposta è: "Non può. Non lo è".
Ogni pezzo di plastica prodotto è ancora
qui sulla Terra, se non è stato bruciato.
Nella scorsa decade
abbiamo prodotto più plastica
che nell'intero secolo scorso.
Quindici anni fa, negli U.S.A.,
il Centro di Controllo
e Prevenzione delle Malattie
ha pubblicato uno studio che mostrava
che il 92% degli americani
ha, nel sangue e nelle urine,
sostanze chimiche legate alla plastica.
E ancora più inquietante
è che bambini tra i 6 e gli 11 anni
ne hanno il doppio
Le sostanze chimiche come gli ftalati
e il bisfenolo contengono composti
dall'attività estrogenica,
che a mimica, e a volte blocca,
la naturale produzione ormonale
dell'organismo.
Studi recenti mostrano che possono causare
gravi malattie del sistema endocrino
quali cancro, diabete, infertilità
e altri problemi di genere riproduttivo.
Ma la plastica è diventata
parte integrante della nostra società.
È molto utile.
Macchine fotografiche, auto, computer,
tutti hanno parti in plastica.
Ma il nostro abituale consumo
di plastica usa e getta
sta distruggendo ambienti
che sostengono la vita.
Sta uccidendo altre specie
e sta inquinando le fonti alimentari.
E allora, cosa accadrà se non fermiamo
la produzione della plastica?
Da quando la produzione della plastica
è iniziata, negli anni '50,
fino al 2015, globalmente
abbiamo prodotto
8,3 miliardi di tonnellate di plastica.
8,3 miliardi.
Di quelli, 6,3 miliardi di tonnellate
sono diventati rifiuti
e di quei 6,3 miliardi di tonnellate
ne è stato riciclato solo il 9%.
Entro il 2050 la popolazione mondiale
esploderà: oltre 9,8 miliardi di persone
e noi riverseremo 12 miliardi
di tonnellate di plastica in discarica
e nell'ambiente.
È sconvolgente.
Ma, allora, la soluzione?
Tutti noi dobbiamo liberarci
dall'assuefazione a plastiche usa e getta.
Dobbiamo arrivare
a una società a rifiuti zero.
Dobbiamo cambiare
i paradigmi sociali ed economici
secondo cui la plastica usa e getta
è una risorsa utile.
Abbiamo bisogno di un approccio
multiforme al problema
con l'aiuto da parte di governi,
commercianti, produttori e consumatori.
E dobbiamo integrare nuove idee,
come nuove legislazioni,
economie circolari
e responsabilità da inizio a fine prodotto
da parte di produttori e commercianti.
E noi, consumatori,
tutti noi dobbiamo fare
scelte più intelligenti.
Dobbiamo ripensare la plastica.
Ma come?
Per cominciare, smettiamo
di comprare plastica usa e getta.
Se a casa, quando bevo,
non mi serve una cannuccia,
e allora perché mi deve servire
quando sono al ristorante?
Non mi serve.
Perché spendere oltre il 2.000% in più
comprando l'acqua in bottiglie di plastica
quando mi costa molto meno riempirne
una in acciaio dal rubinetto di casa,
e spesso è anche più salutare?
Non ha senso.
Portate con voi una borsa riutilizzabile
quando andate a fare la spesa.
E quando arrivate al supermercato,
o al mercato, chiamate il responsabile.
Alla cassa, aprite tutta la plastica
in cui si trovano la frutta, la verdura
che sono state individualmente
avvolte in quel materiale
e consegnatela al responsabile
del supermarket, o al fruttivendolo
chiedendo loro di disporne
appropriatamente,
perché non volete la responsabilità
di portarvela a casa
e di doverla buttare via comunque.
Ma, ancora più importante,
dobbiamo tornare indietro
e comprendere i sistemi
che sostengono la vita sul Pianeta Terra:
i vermi e gli uccelli.
L'uccello non sta uccidendo nessuno
è parte di un complesso sistema
ecologico, ambientale,
che sostiene la vita sulla Terra.
Ora lo so.
Non lo sapevo quando avevo cinque anni.
Solo otto anni fa
non avevo idea che gettando
la mia plastica nella spazzatura
stavo danneggiando l'ambiente
e stavo inquinando la catena alimentare.
La consapevolezza
è un mezzo molto potente.
Come dico nel mio film:
"La conoscenza porta l'interesse
e con l'interesse avviene il cambiamento".
E vorrei lasciarvi con questa idea:
il cambiamento inizia con ognuno di noi.
C'è bisogno di un cambiamento
ed è adesso che ne abbiamo bisogno.
Tutti noi dobbiamo cominciare a cambiare,
per il nostro futuro, per noi
e per i nostri figli.
Grazie mille.
(Applausi)