Abemus Papam
Capitolo 1 – La morte del Papa
Il Papa è morto.
Lo hanno annunciato
stamattina presto, ma io lo sapevo già da ore.
Lo sentivo nell'aria, nel silenzio delle stanze,
nel modo in cui i passi dei segretari
facevano eco nei corridoi del Vaticano.
Ho recitato le preghiere con gli altri
cardinali, ma nella mia mente c'era
solo un pensiero: adesso inizia il Conclave.
Ci siamo raccolti nella Cappella Sistina. Le
porte si sono chiuse dietro di noi, lente,
pesanti. Nessuno ha parlato. Ognuno di noi
sapeva cosa stava per accadere: votare,
pregare, aspettare, e poi votare di nuovo,
ancora e ancora, finché lo Spirito Santo
non ci avrebbe indicato il nome giusto.
Io non ero preparato. Non lo è mai nessuno,
dicono. Ma io sentivo qualcosa di diverso,
un'agitazione profonda, inspiegabile.
Non era paura. Non ancora.
Fuori il mondo guardava i camini,
dentro il silenzio era quasi violento.
Ho guardato i volti degli altri cardinali
e ho capito che molti speravano di non
essere scelti. Io per primo.
Ma allora perché, quando ho
visto quel primo voto con il mio nome,
il cuore ha iniziato a battere forte?
Forse lo avevo sempre saputo. E forse era
proprio questo il mio più grande terrore.
Capitolo 2 – Il Conclave e la scelta
I voti continuavano a salire.
Ogni volta che uno dei cardinali
pronunciava il mio nome, il mio
stomaco si chiudeva un po' di più.
Cercavo di non guardare nessuno,
di sembrare calmo, ma dentro di
me si muoveva qualcosa di incontrollabile.
"Melville." Ancora. "Melville." E ancora.
Ho iniziato a sentire un ronzio nelle orecchie,
come se il mondo fuori si stesse allontanando.
Tutto diventava ovattato, lento.
Non riuscivo più a seguire il
ritmo delle votazioni. Il mio respiro era
corto, ma non volevo alzare lo sguardo.
Poi il momento: 2/3 dei voti. Elezione confermata.
Mi hanno guardato tutti, in
attesa della mia risposta.
Dovevo dire solo una parola: "Accetto."
Le mie labbra si sono mosse da sole. Non
so neanche come ho fatto.
Sentivo mani sulle spalle,
sorrisi, preghiere sussurrate.
Mi hanno portato nella stanza
per vestirmi da Papa, ma io non
riuscivo a guardarmi allo specchio.
"Devi prepararti. Tra poco ti affaccerai
al mondo," mi ha detto qualcuno.
Ho annuito, ma il cuore era una pietra.
E mentre camminavo verso il balcone,
qualcosa in me si è spezzato.
Io non ce la facevo.
Capitolo 3 – Il rifiuto
Le tende rosse erano davanti a me.
Bastava un passo. Bastava affacciarsi.
Il maestro delle cerimonie era pronto.
La folla in piazza, sotto la pioggia,
aspettava quel momento: "Abemus Papam."
Io ero lì, vestito di bianco. Ma dentro
sentivo solo buio.
Mi girava la testa,
il respiro corto, le mani fredde.
"Eminenza, è il momento," ha
sussurrato qualcuno dietro di me.
Io non mi muovevo. Non potevo. Non volevo.
Le parole mi rimbalzavano nella mente come un eco:
"Tu sei il Papa. Tu guiderai milioni di persone.
Tu sei la voce di Dio sulla Terra."
Ma io… io non ce l’ho. Non ho
quella voce. Non ho la forza.
Ho fatto un passo indietro.
Ho sussurrato: "Non posso.
Mi dispiace. Non posso."
Silenzio. Uno di quegli
istanti che sembrano eterni.
Poi, caos.
Mani che cercano di fermarmi, voci che
mi chiamano, cardinali che si guardano confusi.
Io camminavo via. Non correvo. Camminavo lento,
verso un corridoio, verso qualcosa
che neanch’io sapevo spiegare.
Sono tornato nella mia
stanza e ho chiuso la porta.
Mi sono seduto.
Il Papa è stato eletto, ma il Papa non c’è.
Capitolo 4 – Lo psicoanalista in Vaticano
Il giorno dopo non sono uscito dalla mia stanza.
Non ho toccato cibo. Non ho detto una parola.
Sentivo bussare, ogni tanto. Poi più
nulla. Solo il rumore del mio respiro.
Poi, nel pomeriggio, hanno bussato ancora.
Ma questa volta sono entrati:
un cardinale e uno sconosciuto.
Un uomo distinto, giacca elegante,
occhiali sottili. Non era un prete.
"È uno psicoanalista," ha detto il cardinale,
cercando il mio sguardo.
Io ho annuito piano.
Forse era quello che volevano:
qualcuno che mi aggiustasse.
L’uomo si è presentato con voce calma.
Ha detto che non ero malato, che non
ero solo, che era lì per ascoltarmi.
"Non voglio essere Papa," ho detto.
È stata la prima frase dopo ore di silenzio.
Lui non si è sorpreso. Ha solo chiesto: "Perché?"
Ma io non sapevo rispondere.
Non era paura del potere. Non era debolezza.
Era qualcosa di più profondo.
Una mancanza. Un vuoto.
Abbiamo parlato per un po’. Poco, in realtà.
Poi lui ha detto che serviva tempo,
che le crisi non si risolvono in un giorno.
Io ho pensato: esse non si risolvono affatto.
Quella notte ho fatto un sogno.
E al risveglio ho deciso di uscire.
Capitolo 5 – Fuga nella città
All’alba, prima che il Vaticano si
svegliasse, ho aperto la porta e sono uscito.
Senza la veste bianca. Senza anello. Senza scorta.
Solo un cappotto scuro e un berretto.
Nessuno mi ha fermato.
Sono entrato in un
autobus, come un uomo qualunque.
Seduto tra la gente, ascoltavo le voci,
i suoni, il mondo vero.
Nessuno sapeva chi fossi.
Per la prima volta, dopo giorni, respiravo.
Roma era diversa da come la ricordavo.
O forse ero io a essere diverso.
Camminavo senza meta, seguendo solo le gambe.
Mi sono ritrovato in una piazza,
poi in un parco, poi davanti a un teatro.
Una compagnia stava provando uno spettacolo.
Mi sono fermato a guardare.
Una donna mi ha notato: "Cerchi qualcuno?"
"No, forse me stesso," ho risposto, sorridendo.
Mi ha invitato dentro.
Ho osservato le prove. Gli attori che
sbagliavano, ridevano, ricominciavano.
Nessuno era perfetto. Nessuno doveva esserlo.
Uno di loro mi ha chiesto: "Lei lavora a teatro?"
Ho esitato. "No, ma ho recitato spesso una parte."
Quella sera, per la prima volta,
non mi sono sentito un simbolo.
E per la prima volta ho pensato:
forse io non sono fatto per essere Papa.
Ma come si dice questo al mondo intero?
Capitolo 6 – Il mondo aspetta
Intanto in Vaticano era il caos.
Le televisioni di tutto il mondo
continuavano a ripetere:
"Il Papa è stato eletto,
ma non si è ancora affacciato. La fumata
bianca c’è stata, ma nessuna benedizione,
nessun nome, nessuna voce. Solo silenzio."
I cardinali cercavano di proteggere il segreto.
"È in preghiera," dicevano.
"Ha bisogno di raccoglimento."
Ma ormai si capiva che qualcosa non andava.
Io guardavo tutto questo da una piccola
stanza in un albergo vicino a Trastevere.
Il televisore acceso. Il mio volto
ovunque, anche se sfocato, rubato.
I giornalisti cercavano risposte.
I fedeli pregavano. Alcuni erano già delusi.
Io… io non sapevo ancora cosa fare.
Parlavo ogni giorno con lo
psicoanalista, al telefono.
Gli raccontavo delle passeggiate,
delle risate che avevo sentito tra gli
attori, dei sogni strani che facevo.
"E se non torno?" gli ho chiesto una sera.
"E se invece torni?"
"Ma da uomo?"
Ha risposto lui.
Quella frase mi è rimasta in testa per ore.
Da uomo.
Non da simbolo.
Non da maschera.
Ma fuori, intanto, il tempo passava.
E il mondo aspettava.
Io avevo scelto di fuggire.
Ma ora dovevo scegliere se affrontare.
Capitolo 7 – Il ritorno
Sono tornato in Vaticano una mattina
presto, come ero uscito: in silenzio.
Nessuno mi ha applaudito.
Nessuno mi ha abbracciato.
Solo sguardi bassi, sospiri
di sollievo e tanta tensione.
Mi hanno accolto in una piccola stanza
dove mi attendevano i cardinali più vicini.
Mi aspettavano parole, decisioni, un segnale.
Ma io non avevo ancora nulla di pronto.
"Cosa dobbiamo dire al mondo?" ha chiesto
uno di loro, cercando di nascondere l’ansia.
Li ho guardati.
E per la prima volta ho parlato con sincerità:
"Dite che il Papa ha bisogno
di tempo. Dite che è umano."
Silenzio.
Poi qualche mormorio. Delusione, forse.
Ma anche rispetto.
Ho chiesto di vedere il mio psicoanalista,
questa volta dentro le mura sacre.
È venuto senza esitare.
Ci siamo seduti uno di fronte
all’altro, come vecchi amici.
"Ha deciso, allora?" mi ha chiesto.
Io ho annuito.
"Sì. Ho deciso di non fingere più.
E quindi… non sono pronto.
Forse non lo sarò mai."
Lui non ha risposto.
Si è limitato a guardarmi con
uno sguardo calmo, quasi sereno.
Avevo trovato la mia voce.
Ora restava solo da usarla. Davanti a tutti.
Capitolo 8 – Il coraggio e la verità
Quel giorno la piazza era di nuovo piena.
Ombrelli. Mani giunte. Occhi
fissi su quel balcone vuoto.
Le telecamere inquadravano ogni dettaglio.
I giornalisti parlavano di
tutto, pur di riempire l’attesa.
E io, dietro quelle tende rosse, respiravo piano.
Non avevo più paura. Avevo solo verità.
Il maestro delle cerimonie mi fece un cenno.
Potevo uscire.
Ma non per diventare Papa.
Per dire al mondo che non lo sarei stato.
Sono apparso.
L’intera piazza ha trattenuto il fiato.
Ho guardato quell’oceano di
volti e mi sono sentito piccolo.
Ma finalmente reale.
Ho preso il microfono.
"Fratelli e sorelle," ho
cominciato, la voce ferma,
"non ce la faccio. Non posso
accettare il ruolo di Papa.
Perché un Papa deve credere, deve
guidare, deve parlare con la voce di Dio.
Io sento solo la mia."
Un mormorio. Poi un lungo silenzio.
Ma io continuavo:
"Vi chiedo perdono.
Ma vi chiedo anche di accettare la mia
umanità, il mio limite, il mio vuoto."
Poi ho abbassato il microfono.
Il mondo non era pronto.
Ma io sì.
E in quel momento, per la prima volta,
ho sentito dentro di me una nuova forza:
non essere Papa, ma essere me.